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Gli scudieri di San Marco

Ultimo Aggiornamento: 13/11/2009 14:55
17/10/2009 23:42
 
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Il 1213 iniziò col pubblico lutto per la scomparsa del Doge Pietro l'Afflitto ma, in verità, l'intima afflizione dei più non fu gran cosa; gli eventi che realmente turbarono i cuori furon altri.
I Regni di Sicilia e di Francia erano entrati in guerra, e ciò imponeva rapida scelta fra quale alleato serbare e quale lasciare al suo destino. Il primo, l'aggressore, era reputato il più forte, e vi era remora a scontentarlo; il secondo parea quello più sincero o, almeno, il più rispettoso dei confini.
Nel corso di un tumultuoso concilio Blasio de Rosa, signore d'Asti, prese la parola dicendo: “Il mio esercito è pronto. Volete uno scomodo avamposto in Francia fra un anno, o due porti sul Tirreno entro poche settimane?'” Dopo ancor breve discussione vinse il partito filofrancese: l'armata astigiana si mise in marcia pochi giorni dopo la partenza degli araldi che avrebbero comunicato ai vecchi alleati la decisione della repubblica.
Blasio sapeva di poter lanciare un attacco inesorabile; la presa Genova gli costò solo trentatre caduti.
L'attacco immediato a Pisa era un azzardo che meritava di esser corso. Il solo a poterlo tentare era Barnaba de Nigro, con arcieri, lancieri e milizie di stanza a Bologna e Firenze (ove si trovavano anche le uniche baliste disponibili) oltre a balestrieri pavesi e cavalieri mercenari appiedati reclutati all'ultimo momento; una forza che avrebbe dovuto confrontarsi con quella di un signore che, al riparo delle mura di pietra, schierava una guarnigione rinforzata da tre compagnie di armigeri, una di cavalieri appiedati, ed una di sergenti a cavallo.
Gli artiglieri ebbero ragione del portone, ma non delle altre difese; i tiratori fecero il possibile per sfoltire i ranghi nemici, ma il loro tiro era poco efficace contro quelli che si erano schierati a protezione del varco; l'attacco delle fanterie si svolse sotto scrosci bollenti, e degenerò in una zuffa caotica in cui il posto di guardia fu più volte conquistato e perduto; Barnaba ed il suo antagonista erano a poca distanza l'uno dall'altro, ma separati dalle mura, a sostenere i propri uomini; alla lunga i fanti di Venezia, raggiunti dai balestrieri senza quadrelli, riuscirono ad abbattere tutti quelli nemici, solo per esser spazzati via dalla carica dei cavalieri normanni. Era ormai il tardo meriggio, e raramente s'era visto il confronto fra due schieramenti sì malconci; fuori stava Barnaba, coi suoi superstiti arcieri, padrone della porta era il normanno, cui restava qualcuno sulle mura, oltre ad una trentina di sergenti a cavallo ed una manciata di uomini della guardia. Contro quest'ultimo gruppetto si concentrò il tiro delle saette infocate, che infine abbatté anche il loro signore, per poi tormentare la cavalleria di minor rango. Or non si poteva più tardare l'ingresso, o la giornata sarebbe stata persa, e c'era un sol modo. Barnaba diede il segnale, si lanciò nell'antro a vivace andatura, e scroscio dall'alto fé di lui frittura. I suoi cavalieri, semiaccecati dai vapori e dagli schizzi non se ne accorsero nemmeno; galopparono dritti fino alla piazza, poi si volsero per abbattere uno ad uno i cavalleggeri nemici che accorrevano trafelati, con gli arcieri veneziani nella scia.
Fu così che Pisa divenne terra della Serenissima.




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