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Il canto dei Galli

Ultimo Aggiornamento: 11/10/2008 10:42
07/10/2008 12:52
 
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La nostra guarnigione di Ariminium diede grande prova di valore, e cadde sino all’ultimo uomo sotto l’attacco di quella forza soverchiante.
Temevamo che la stessa cosa sarebbe accaduta a Mediolanum, ma Cunobelino l’Onesto seppe far fronte all’impossibile. Aveva al suo comando meno di mille uomini, ed i romani oltre il triplo. Comprendendo di non poter bloccare i numerosi varchi che sarebbero stati aperti nella fragile palizzata, egli schierò tutti i suoi guerrieri nelle interne vie del borgo; qui attesero i romani a lance spianate, e li accolsero con terribili urla di guerra e pioggia di giavellotti; l’incitamento e le cariche del generale impedirono al nemico di sfondare, e lo fecero vacillare; poi il duce romano volle incitare i suoi con l’esempio, ma venne disarcionato e fatto a pezzi; quelli si scoraggiarono del tutto e, rotte le file per darsi alla fuga, si esposero al massacro; ne scamparono solo una cinquantina.
Similmente andarono le cose ad Alesia quando, poco tempo dopo, dovette sostenere l’urto di due eserciti britanni; di uno di questi sopravisse un solo uomo.
Ma eravamo troppo pochi e troppo poveri per sostenere a lungo la pressione di quattro popoli bellicosi, tutti bramosi delle nostre terre; fummo estromessi dall’Iberia e dalle coste atlantiche, e dei restanti borghi di Gallia solo la capitale avrebbe potuto opporre valida resistenza.
La scomparsa dei Celti era scritta nelle stelle, ma gli astri non specificavano come e dove; il finale lo avremmo scritto noi, e non ci saremmo rassegnati ad una lenta agonia.
Una parola d’ordine fu passata a tutti i guerrieri: fate la vostra cassa per il mezzogiorno, si lascia la terra degli avi per concentrarci a Mediolanum, lasceremo indietro solo pochi contadini per conservare i nostri borghi finchè sarà possibile.
Secondo il piano originario, la grande armata degli esuli avrebbe dovuto riprendere Patavium; ciò avrebbe cancellato dalla storia gli Iulii, che non avevano saputo conservar Segesta da una rapida incursione partita da Arretium; ma ora era proprio Arretium ad essere minacciata, per cui accorse in suo soccorso liberandola dall’assedio.
Disponendo colà di due grandi eserciti, ritentammo l’impresa fallita anni prima: forzammo il passaggio del Tevere, ed assediammo Roma su due lati. Ci lanciammo all’attacco non appena furono pronte le prime torri mobili ed arieti, che il rischio di esser attaccati da tergo e una pestilenza scoppiata fra le truppe non consentivano di affamarla. Eporedorige, che con i suoi fu il primo a entrare, trovò la morte, ma la città fu nostra; così il cinghiale mangiò SPQR.
Or la città è nostra da diversi anni; l’abbiamo difesa più volte ridicolizzando ogni tentativo di riconquista compiuto dalle famiglie romane del resto d’Italia; ma non possiamo allontanarcene, ed il nostro mondo si riduce a questo: una cinta di mura fastose, perché rabberciate con marmi pregiati sottratti a terme e templi, difesa da guerrieri irriducibili ma senza speranza di trovar rimpiazzi per i troppi vuoti nelle loro schiere.
Roma sarà la città del nostro eterno riposo.

(frammento datato 230 a.c.)




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