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Il canto dei Galli

Ultimo Aggiornamento: 11/10/2008 10:42
30/09/2008 10:41
 
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Con rapidi e letali attacchi, Riocorige sgombrò i paraggi di Osca da ogni presenza iberica; poi dovette passare i pirenei con gran parte dei suoi, per soccorrere Narbo Martius assediata da un forte esercito britanno. Le sue forze, congiunte ai difensori del borgo, avrebbero potuto contenere la minaccia già nota; purtroppo non aveva notizia di un secondo esercito nemico che dapprima gli sbarrò la strada, poi raddoppiò l’attacco alle fragili mura. Solo le sue avanguardie riuscirono ad impegnare la retroguardia di una delle armate di invasione, mentre tremilaottocento guerrieri nemici già sciamavano fra le capanne; questo alleviò di poco la pressione intorno al sacro monolite, dove cadde eroicamente il capotribù con tutti i suoi.
La caduta di Narbo Martius fu il triste prologo della scomparsa dei celti da tutto il ponente; le province al di là dei pirenei sarebbero restate nostre solo finchè gli iberici non si resero conto che, ormai, unicamente un manipolo di valorosi si ergeva a loro difesa.
Riocorige mai potè tornare in quegli amati luoghi, anche solo per visitare il tumulo del figlio; i fatti lo costrinsero a portarsi a marce forzate sino ad Alesia.
La capitale aveva sbaragliato diverse armate assedianti, ma i difensori erano esausti e l’incedere dell’età aveva avuto infine ragione di Brenno il senza paura; il giovine inesperto subentratogli nel comando doveva ora fronteggiare l’ennesima masnada britanna, e la presenza dei loro devastanti carri falcati lo aveva trattenuto dal tentare una sortita.
L’arrivo dei rinforzi gli diede l’opportunità che cercava; mentre l’attacco di Riocorige disturbava il nemico nella delicata fase di ridispiegamento, i suoi uscirono in bell’ordine e si schierarono compatti; il salmodiare cupo e monotono dei druidi paralizzò e terrorizzò l’avversario, che si sbandò al primo cozzar di lame; i carri, intontiti dall’incantesimo ed impacciati dai fanti in fuga, furono colti da fermi ed annientati; con un gran urlo di rabbia e di sollievo, tutti si lanciarono a scannare i fuggitivi.
Grande stupore fra le genti destò la seconda fase della campagna d’Italia.
Gli Iulii puntarono verso Ariminum, contando di poterla facilmente riprendere prima che noi potessimo colmare i vuoti lasciati dalle due battaglie nei pressi di Roma.
Per distoglierli dal loro intento, due nobili celti con poche truppe lasciano Mediolanum; uno va ad assediar Segesta, che i Romani avevano nuovamente sottratto ai ribelli; l’altro minaccia Arretium, la loro capitale. Non potendo arrischiar la perdita delle loro città, i Romani desistono dall’attacco e tornano indietro; poi, stupidamente, disperdono le loro forze verso nord, per inseguire le due piccole armate. Ciò non solo lascia tempo a Vindece per ricostituire il suo esercito, ma gli offre persino l’occasione per uscire in forze da Ariminum ed assediare Arretium, il frenetico controordine alle truppe lanciate verso Mediolanum non giunse in tempo; il capofazione nemico cadde nell’estrema difesa della piazza cittadina.
Inetti a maneggiare il ferro, gli Iulii si mostrarono più abili con l’oro; poco prima di essere espulsi dalla loro capitale, seppero comprarsi la fedeltà di Patavium.
Per nostra fortuna, Patavium e Segesta difettavano delle grandiose caserme cui quelli erano abituati sicchè, nelle stagioni successive, poterono mandarci contro solo miserabili formazioni di contadini e guardie cittadine, di cui facemmo un sol boccone; noi, ad Arretium, riuscivamo ad equipaggiare anche i primi arcieri, e nuovamente ci impadronimmo di Segesta.
Ma l’epoca dei nostri grandi trionfi nella penisola sembrava volgere al termine; gli Iulii riuscirono infine a radunare una possente armata, con largo apporto di mercenari, e con quella assediarono Mediolanum; una formazione ancor più temibile, con le insegne verdi dei Valeri, si presentò alle porte di Ariminum.

(frammento datato 248 a.c.)




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