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Cronache Bizantine

Ultimo Aggiornamento: 15/04/2008 16:19
15/04/2008 16:19
 
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Il tardo Impero

I tempi che vo a narrar son tristi e bui, eppur illuminati da sprazzi di gloria imperitura.
Muore l’Imperator Giovanni e quasi nessuno se ne avvede, anche perché il suo successor porta lo stesso nome. Giovanni II, che molti ritenevano stolto, per lungo tempo avea amministrato Tessalonica, con opera silente e senza gloria. Negli ultimi anni del suo principato raggiunge Sofia, la toglie al nemico, e poi la difende con aspro combattimento fra le case; ed è ancor intento a dar nuova vita a quel conteso municipio, quando vien chiamato a regger le sorti dell’impero tutto.
Ma altre sono le notizie che scaldano, o turbano, i cuori.
Si è in pensiero per Zagabria, dove la peste ha ragion dell'impavido Loubertos Comneno; e con buon motivo perchè, sepolto lui, presto il nemico la fa sua senza grande opposizione.
Or Venezia è isolata, e più non sarebbe saggio rimanervi; Panagiotes Comneno la evacua via mare portando seco ogni tesor atto all’imbarco, e lasciando a chi verrà vuota carcassa.
Egli fa scalo a Ragusa per prender più truppe e munizioni, poi va a cercar il veneziano ove ancora si nasconde, nelle perdute isole di Cipro e Rodi; il navigar è periglioso, due volte rischia il disastro, ma sbarca alfin nell’uno e l’altro posto, e li recupera alla corona di Bisanzio; al Doge, che tenta colpo su Cipro mentre Rodi cade, null’altro resta che vita da bandito.
Il settentrione più non conosce pace, il mongolo imperversa senza posa.
Gli resiste orgogliosa Iasi per un poco, senza il suo duce che peste s’è portato, e vien punita con orrido massacro; al Khan in persona deve sottomettersi Bucarest; solo a Bran l’orda viene più volte umiliata, che per guadagnar le esterne mura perde ogni uomo atto a sfondar l’ultima grata.
Ancora una volta è da oriente che vengono le migliori nuove, par che sia nato un novello Vulcano.
Partitosi da Iconio con quella che doveva esser solo armata di rincalzo, Alessio il Bello ingaggia e vince il turco nord di Adana, poi quella piazza toglie nuovamente al nemico; giunge a Mosul ove visita la tomba del gran generale; sulla via di Baghdad aggiunge alla sua schiera mercenaria truppa che mai s’era vista pria, maestosi elefanti che sulla groppa portano artiglieria; son quelle bestie che prima fan carnaio nella piazza con il tiro, poi spiaccicano sotto le zampe il gran Sultano; identico trattamento riserva al successor suo, e con minor fatica, che le porte di Yerevan gli son spalancate dall’abile opera di spia; da lì minima forza di arcieri e fanti vien distaccata per assediar Tblisi, gran piazzaforte mal guarnita, che subito cade quando suo difensor tenta improvvida sortita; con soli cavalli e liofanti muove veloce per Adana, nuovamente in mano all’ottomano. Quivi è più ardua impresa, perché vi è forte presidio all’interno, ed altra armata guidata dal sovrano appena fuori le mura; ad evitar che si congiungano, la guarnigione è neutralizzata dalla piccola forza di Stefano Milo che, con catapulta e pochi fanti, pone l’assedio sull’opposto lato; or il nemico fugge quando Alessio lo provoca a battaglia, poi ai due non costa gran fatica espugnare i bastioni.
Tale vittoria è mista a delusione, perché errando la si pensava definitiva, ma si palesa che il nemico ancor dispone di altro ignoto baluardo; ed ancor forte ha da esser il suo casato, che non si estingue quando Alessio esce a forze pari, ma col vantaggio dei suoi terribili mercenari, e per terza volta spedisce un Sultano al falso Dio.
Restano impressionati gli egiziani, che si affrettano a dichiararsi alleati; ne è impressionato pure il nuovo imperator, Romano impropriamente detto il Tirchio, che dalla capitale fa saper che l’erario di Tessalonica nulla risparmierà per lo sforzo finale contro l’odiato vicino.
Il prode generale muove dunque per Cesarea, che più non da notizia dopo improvvisa ribellione; ma non è questa la nuova capitale turca, anzi il Principe nemico l’assedia per farla sua; lo affronta e lo ricaccia, ed inseguendolo giunge in vista di Trebisonda; qui finalmente lo costringe a battaglia, in splendido palmizio che si affaccia sul mare; col nobile nemico cadon tutti i difensori della città, indarno corsi in suo soccorso; ma neppure la serena marcia entro la bella città basta a chiudere il conto, che flotte turche ancor solcano i mari e sue truppe tentano fiacchi assalti sulle due sponde del Bosforo.
Per risolver l’enigma si sguinzagliano spie in ogni contrada, ma le notizie tardano e sul patrio suol si consumano tanti drammi.
Si spegne Romano, e gli succede Giorgio, che come lui ha fama di avaro, e peggio ancor non ha fortuna alcuna.
Ottiene modesta vittoria contro i Polacchi, che subito lo umiliano rendendogli pariglia; così son presto perdute Sofia e Bucarest, e tanti armati. Fa richiamare forte contingente da Ragusa, che potrebbe essergli prezioso, ma quello diserta in massa appena varcate le mura. Torna a Tessalonica per curar gli affari di governo, e non sa difenderla dai milanesi; lì cade, e ben pochi sono i pianti che per lui s’odono nel regno.
Si piange invece, e molto, per fulgido eroe che nel medesimo anno funesto cade.
Le spie di Alessio hanno scovato il turco dove meno te lo aspetti, in modesto borgo sul mar nigro a nome Caffa, confinante con lande dominate dall’orda mongolica. Questa però non nuoce, par che sia in lotta con altri e più terribili nomadi dilagati nelle steppe. Il generale muove con veloce colonna montata, e raggiunge il sito seguendo la via delle sponde orientali; conta di reclutar sul posto maggior forza, ma non ne trova, e anche la trovasse il tesoro sarebbe troppo malmesso; il nemico lo sfida con pochi più armati dei suoi, e lui stima di poterlo sopraffare grazie a cannoni e zanne delle immense bestie che ancora porta seco; i fatti sembran dargli ragione, quando è abbattuto il Principe e ultima speranza di Turchia resta il Sultano; ma or i pachidermi son terrorizzati dalle avverse artiglierie, e fuggendo fanno più danni del nemico; Alessio tenta la via del singolar tenzone, e mena terribili fendenti sino a che lama da tergo lo trapassa.
Modesto è il nuovo imperator, ma sol nel nome.
Il mongolo ha fatto di Iasi possente fortezza, il tartaro gli impone di sguarnirla per combattere chissà dove; lui fa svuotare Bran, e assedia l’altra piazza, che presto torna terra di Bisanzio.
Similmente fa fare in medio oriente; Aleppo e Adana son lasciate, per toglier Antiochia a ciò che resta di forze crociate.
I frutti della gloria son secondi a quelli del sacco, che porta quattrini bastanti sia a reclutar esercito che sbarra ai milanesi la via per Costantinopoli, sia ad allestire possente flotta nel Mar Nero, la cui missione è investire Caffa con travolgente sbarco.
Nulla vien lesinato per tale impresa; parton da Trebisonda i legni e molti armati; accostano alla sponda occidentale per imbarcarvi veterani di Bran e di Iasi, oltre a Filippo, generale dalla scarsa nomea e dal grande acume; costui ha scovato e porta con sé due unità mercenarie con nuovo e terribile armamento; gli uni sono artiglieri che brandeggiano gigantesca bombarda, gli altri hanno uno schioppo che, con stupor di tutti, buca le meglio armature; alla prova del fuoco non danno delusione, i primi sbriciolano le mura, i secondi spargono noncuranti morte e sgomento; alle lame di antica tradizione resta, però, l’onore di fare lo scempio final che chiude questa storia.




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