La mia contrarietà è totale e si fonda su una convinzione semplice: l'uomo non è mai riducibile esclusivamente a ciò che fa, come se fosse una cosa. La persona umana, in quanto tale, ha una dignità intangibile: anche quando un uomo commettesse il più atroce dei crimini, non per questo qualcun altro si potrebbe arrogare il diritto/potere di decidere della sua vita o della sua morte. Ci si dimentica troppo facilmente della funzione di emenda della pena (nelle carceri, una volta, c'era scritta all'ingresso la frase "vigilando redimere")per dar sfogo al più immediato (e bestiale, lasciatemelo dire) impulso di vendetta. Ci sono due modi di intendere la giustizia: il primo è il classico "a ciascuno ciò che si merita"; il secondo aggiunge a ciò uno sguardo verso l'altro che ti faccia comprendere che di fronte hai una persona come te che, certo!, ha sbagliato, ma non per questo si può mettere da parte il fatto che un giorno possa anche pentirsi. Detto questo, anche io punterei sulla certezza della pena, ma anche sui programmi di recupero dei carcerati, in primo luogo mediante il lavoro: non come strumento punitivo per guadagnarsi la sbobba, ma come opportunità di recuperare una dimensione più "umana" del vivere.