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Regno dell’Imperatore Giovanni

I magiari accampati alle porte orientali davan pensiero, ma la vera minaccia è portata da titanica armata turca che improvvisamente sbarca presso le mura occidentali e pone l’assedio.
Sopraffatto da mille angosce, fra cui la perdita della bella flotta che una volta gli portò soccorso, Costantino rende l’anima al Signore. E quelli subito attaccano la capitale parata a lutto; la crisi di comando impone pegno, il tiro dalle torri e dai bastioni è sì impreciso che neppure li rallenta; son presto sulle mura ed entro i cancelli, ed in un lampo sopraffanno i difensori. Bisanzio è perduta.
Valsamon il Santo lascia Iasi raccogliendo per via esercito che mai l’Impero d’Oriente vide; ed al grande condottiero nulla resiste, né il turco che osò profanare la città, né il vil magiaro che ancor si attarda nei pressi. Ma quella che fu superba capitale, è ormai derelitta rovina.
Sì grande è il suo sdegno che passa il Bosforo, fa macello di un esercito turco in Anatolia, raggiunge Iconio, la cinge d’assedio e la espugna; ma qui si spegne quel prode, che troppi son stati gli strapazzi per uomo non giovine ed avvezzo a tutt’altro clima. Ma il suo insegnamento non è spento, e presto si prende anche Cesarea.
L’Imperatore Giovanni risiede nella fortezza di Bran, e da qui provvede a rafforzar nuovamente le provincie settentrionali, che si eran sguarnite per consentir l’impresa.
Comneno abbandona Budapest dopo averne fatto scempio, che non interessa tenerla, e come fiume in piena che nulla ferma toglie Zagabria alla Serenissima; da qui vuol cominciar la marcia finale su Venezia, e liquidare il conto con le sue odiate genti. Ma è subito messo sotto assedio, nè li scaccia con sfortunata sortita che solo riesce ad abbruciar una torre. Il talento e la fama del condottiero sono però intatti e, quando il nemico osa l’assalto e giunge in forza sin nel cuore della città, prima lo volge in fuga ributtandolo oltre le mura, poi di persona l’insegue e ne fa strage.
Purtroppo, ad altri condottieri arride minor fortuna. Trifyllos parte da Durazzo per Ragusa, pensando di trovarvi poca opposizione; il calcolo sarebbe giusto, ma non mette in conto una nascosta schiera, che pria lo costringe ad arretrar, poi lo massacra.
Meglio va a Glycos, che si sgombra la strada e sotto quelle mura giunge in gran forze e pone l’assedio. Quegli però non ha stoffa di gran duce; sfondati i cancelli con i tiri, è troppo lesto a lanciar l’assalto, col risultato che i suoi vengono miseramente presi in mezzo quando tentano il passaggio; fanti e cavalieri che scampano son ributtati fuori, e assai malconci; pochi armigeri nemici vengon crivellati di frecce quando escono per inseguirli, e questo è il meglio della giornata. Si ripiega, e così ha da far anche Comneno, che non potendo più ricever quei rinforzi di cui avea pressante bisogno lascia Zagabria alle fiamme e agli sciacalli.
Le forze del generale invitto e di quello sconfitto si ricongiungono e marciano alla volta di Sofia, che nel frattempo è stata raggiunta e assediata dal polacco.
Quel borgo ha mura di legno, scarse truppe e nessun governatore; deve fronteggiare l’esercito di un gran generale che dispone di tante catapulte, baliste e trabucchi. Nulla si può fare per salvar le mura, che vanno in briciole con tutto il quartiere occidentale. Un drappello di tiratori a cavallo tenta di ostacolarne il tiro, ma con ben modesti risultati; fa, però, infuriare il generale nemico, che si lancia all’inseguimento con tanta foga da restare impalato sulle lance dei difensori che attendono saldi all’imbocco della piazza. La sua armata sbanda, ma è solo un momento; tosto si riprende, ed ottiene crudele vendetta sugli armati e sugli inermi.
Gli infami han ben poco da esultare, perché Comneno presto gli rende la pariglia; indi si appressa, col seguito ingrossato dai figli suoi, a difesa di Tessalonica; la nuova capitale, infatti, ha ricevuto l’insulto di ripetuti, e vani, attacchi degli uomini del falso Patriarca di Roma.
Questi non ne hanno saputo infranger le difese, ma han preso la rocca di Corinto; uno dei figli di Comneno, Loubertos, libera dall’invasore la vecchia residenza di John il sanguinario.
Il padre suo parte da Tessalonica alla volta di Durazzo, anch’essa caduta in mano ai papisti; ma morte lo coglie sui passi innevati, e Loubertos accorre a prender comando dell’armata.
Or conviene volger lo sguardo all’opposto fronte, e ai suoi fatti d’arme, di cui dico in una fiata.
Nuova stella d’Oriente è un giovin generale, che lo destino suo porta nel nome: Vulcano s’appella, e potenza indomita si dimostra.
Si fa conoscer appena muove da Iconio; come lava infuocata i suoi armati devastano i turchi che volean riprender Cesarea; prende d’impeto Adana; con accresciute schiere di turcopoli ed altri mercenari travolge il possente esercito di Mih a nord di Antiochia; senza attender rinforzi assedia e assalta pure la città, mettendola a ferro e fuoco; vi sosta un poco, poi travolge El Aziz e li suoi, che gli volean sbarrar la via di Aleppo, che presto è sua; si volge ad Edessa, che sottomette; dagli spalti di quella città fa strage di immensa armata che la volea riprendere al culto di Maometto, e riempie pure li forzieri con pingue riscatto; poi la lascia, ed è perduta, ma riprende Aleppo, che non avea saputo resistere all’invasore; da lì con un balzo è a Damasco, che mette a sacco ed abbandona; torna ad Aleppo, nelle cui sabbie lascia a marcir le carcasse di 1300 turchi che s’eran fatti sotto; lascia quella rocca per affrontare l’esercito guidato dal Sultano turco in persona, che ingaggia e massacra fra le dune; è di nuovo ad Edessa, e di nuovo la fa sua; seguente tappa è la possente cittadella di Mosul, che cinge d’assedio. Qui peste lo coglie, e si spegne fra i tormenti pria di vederne i cancelli infranti da un modesto capitano dei cavalleggeri, che bene ha appreso la lezione sua.
Or si fa un passo indietro.
Subito dopo il sacco di Antiochia, giunge notizia buona e cattiva da altre lande; di buono c’è che i magiari più non daranno noia; men bello è saper che sono stati annientati da orribile orda nomade nomata Mongolica. V’è da temer che quelle genti presto si affaccino ai confini dell’Impero.
Poco si può far per questo, poiché armati occorrono in ogni dove.
Loubertos Comneno affronta i papisti ad est di Durazzo, e fa 450 prigionieri; come anni prima, la città è poi facilmente presa al nemico; da lì esce e sbaraglia una spedizione di veneziani, poi fa contento il concilio bloccando il porto di Ragusa per via di terra. Da lì muove per quella piazza, ed il Doge ed il Consiglier veneziano lo affrontano in campo aperto; errore che pagano col sangue, poiché nessuno scampa alla battaglia, e si può varcarne cantando le formidabili porte.
Rodi e Cipro cadono senza soccorso quando Venezia vi fa sbarcar nemmeno troppo grosse armate, mentre sono i Tedeschi ad assediare Sofia; si tenta di aiutarla, ma non si giunge in tempo.
E questo è il meno, che già l’orda minaccia Iasi con esercito guidato dal suo principe ereditario. Glykos tenta di soccorrerla portandovi quanti sottrae a più sicure piazze, ed altri che recluta per via, e nel far ciò lo sconfitto di Ragusa vive l’ora sua più bella.
I Mongoli assaltano lui e prima lo ricacciano indietro, poi lo costringono a battaglia.
Fra quelle spoglie colline non avrebbe scampo al dilagar di arcieri e lancieri a cavallo su ogni lato; l’unica è correr su per un clivo, per addossar le spalle dell’armata ad inaccessibile rupe; qui forma un semicerchio di skiltron che racchiude gli arcieri e la scarsa cavalleria, prega il Signore ed attende saldo la Nera Signora; quelli restano interdetti, gli chiudono ogni via di fuga ma non han cuore di tentar l’assalto del modesto pendio presidiato da selva impenetrabile di lance; restano sotto urlanti e minacciosi, e molti cadono sotto i dardi che piovono dall’alto; dopo il tramonto si fa la conta di trecentoottantatre cadaveri; Glycos non ha perduto un solo uomo.
Battuti ma non domati, i Mongoli convergono rapidamente su Iasi, e riescono ad assaltarla prima che vi giunga l’armata di soccorso; Emanuele il Tirchio e i suoi la difendon con valore, ma il cancello cede e tutti cadono sotto la furia di quegli scatenati, salvo un pugno di arcieri che nessun si cura di stanare dai bastioni.
Ma questa vittoria gli costa cara; sopraggiunge Glycos, che ha raddoppiato la sua schiera; pone l’assedio, prima che quelli abbian colmato le perdite; attende un poco e poi li assale, ed han pochi uomini atti a presidiar le mura; sono ancora fortissimi in cavalieri, ma quelli non sono adusi a sì ristretti spazi; sembran dapprima prevalere, ma poi possenti schiltron li chiudono in piazza d’arme, e dietro a questi archi e balestre seminano morte sino a che le faretre son vuote; è un gran macello, e per la pugna finale si deve marciar su corpi d’uomini e bestie. E’ trionfo a caro prezzo, perchè ognun di quei demoni porta con sé due o più dei nostri.
Grandi imprese compiono i fratelli Comneno in occidente; Loubertos prende Zagabria, e la tiene; Panagiotes arriva sino a Venezia, l’espugna e vi si insedia. Quivi è oggetto di ripetuti attacchi del vil Tedesco, che appena lo cacci subito si ripresenta con nuove armate e sicari; tutto sembra perduto quando in duemila attaccano i men di cinquecento rimasti atti alle armi, ma vince ancor; lascia sguarnite le mura, e tutto s’arrocca in piazza; l’attaccante è accolto da tal pioggia di dardi e di palle di bombarda che si acquatta dietro l’ultimo dosso e più non muove; i pochi animosi che tentano il passo per altra via son dispersi dal generale stesso. Giunti alla fine della giornata, men di duecento sopravvissuti vedon la fuga di un numero triplo di armati, e deve badare ad un numero doppio di prigionieri; questo, però, per poco, che tutti li si scanna.